UNA NUOVA CENTRALITÀ AL PARLAMENTO

GRAVI RISCHI DERIVANTI DAL DISFACIMENTO PARLAMENTARE, DOVUTO A PERSONALISMI E VICENDE PROCESSUALI

di  ANDREA MANZELLA  La Repubblica  09 giugno 2011 —   pagina 31   sezione: COMMENTI

Cultura istituzionale.  Quaranta anni fa, di questi giorni, la Camera e il Senato approvavano i loro nuovi Regolamenti. Dissero di “sì” i democristiani di Giulio Andreotti e i comunisti di Pietro Ingrao e i repubblicani di Ugo La Malfa, ma anche il gruppo del MSI di Giorgio Almirante e i monarchici di Alfredo Covelli e i liberali di Aldo Bozzi. Presidente della Camera era Sandro Pertini, presidente del Senato era Amintore Fanfani. Secondo quel principio di equilibrio fra le presidenze parlamentari (mai dello stesso colore) che, quando è stato osservato, è riuscito a dare una qualche logica anche alle duplicazioni del nostro “bicameralismo perfetto”. Ma perché quel consenso parlamentare mai così visto dai tempi della Costituente? Perché era un’operazione di cultura istituzionale. La scomposizione della società italiana che era iniziata (simbolicamente e non) con il 1968 aveva infatti provocato tra i partiti un momento di riflessione: sui loro insediamenti sociali e sul loro stesso destino, di fronte alle correnti di cambiamento che si erano messe in moto al di fuori dei canali tradizionali della politica.

Istituzione aperta.  Tutti i partiti avevano perciò puntato sul Parlamento come istituzione “aperta”. Non più confiscata da essi, non più ristretta al rapporto bilaterale con il governo. Per la prima volta i Regolamenti accolsero largamente la possibilità di audizioni e di indagini conoscitive nelle Camere. “Scoprirono” i limiti del potere legislativo: nelle norme europee, nelle attribuzioni regionali, nella Corte costituzionale. Quei regolamenti del ‘71 non evitarono certo il peggio politico che ancora doveva arrivare con le sue tragedie. Ma la parlamentarizzazione che ci fu allora aiutò la democrazia a resistere quando fu più alta l’ondata di piena dell’eversione. Il Parlamento si rivelò, sotto questo aspetto, un buon investimento per tutti: la legittimazione reciproca di allora permise la tenuta dello Stato e delle sue libertà.

Il procurato disfacimento parlamentare  dei nostri giorni, al di là dei gesti e delle risse, preoccupa perché sembra segnare il venir meno di una risorsa istituzionale indispensabile a fronte del peggio che può ancora arrivare. L’intervento, per molti profili eccezionale, del Capo dello Stato si spiega con il pericolo di questa frana. Per tanti aspetti, la situazione è più grave che nel 1971. Ora la decomposizione sociale si consuma in una disoccupazione “individuale” di massa. Le nostre banche, alle prese con una difficile ristrutturazione finanziaria interna, faticano a sostenere le imprese: dalle più piccole alle più grandi. I rischi per l’euro sono alle porte di casa e non si sa quanto i chiavistelli di oggi potranno resistere. Una catastrofe umanitaria si abbatte sulle nostre coste e da qui sulle altre regioni, mentre siamo, di malavoglia, in una specie di guerra.

Di fronte a questi dati, la maggioranza gioca allo sfascio,  a colpi di forza e di ridicolo, dell’unica istituzione che potrebbe, per sua struttura, per le sue stesse funzioni, “unificare nella diversità”. Non è un sogno, non sono fantasie. Ancora in questi ultimi mesi il Parlamento quando ha potuto lavorare su cose serie, lo ha fatto con grande aderenza alla necessità di un moderno pluralismo. La nuova legge sulla contabilità pubblica, con la sua coerente reattività alle decisioni europee sulla crisi, ne è un ottimo esempio. La stessa legge sul federalismo (al di là del giudizio che si può – e si dovrà – dare sui suoi risultati e su certi essenziali congegni ancora incerti) è tecnicamente un modello di nuova centralità del Parlamento: individua una sua funzione di raccordo unitario tra differenti e muscolosi decisori territoriali e sociali.

Risultati quasi miracolosi:  ora che il Parlamento non può contare sul sostegno di partiti strutturati come quelli che fecero la Repubblica. Il successo del più grande partito “personale” ha generato infatti partitini personali e sottogruppi parlamentari, con molti incentivi alla rottamazione ulteriore. Se certi risultati sono stati raggiunti, questo è dovuto allora non solo alla bravura e alla ragionevolezza di pochi uomini esperti e non faziosi, ma anche perché l’istituzione ha in sé, malgrado i secoli passati, una sua interna capacità di flessibilità e di adattamento ai tempi: di rappresentanza, in una sola parola. È davvero allora un errore politico buttare via queste possibilità di governo parlamentare. Per abbandonarsi a continue provocazioni contro l’ordine del giorno del Paese, contro le emergenze di tutti, contro la dignità e l’onore nazionali. A quale scopo poi? Per torbide vicende processuali, da avvocaticchi. Ricostruire il Parlamento come risorsa della Nazione, e non come traballante ruota di scorta, dovrebbe essere invece la prima cosa da fare.

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